Putin ha mire imperialiste, le sanzioni non bastano

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24/02/2022

L'intervista di Vincenzo Camporini a Fanpage.

L'invasione dell'Ucraina è iniziata. Lo ha annunciato il presidente russo Vladimir Putin poco prima delle 6 del mattino: "Ho preso la decisione di un'operazione militare". Dopo la mossa di lunedì, quando Mosca ha deciso di riconoscere unilateralmente le repubbliche separatiste filorusse del Donbass, il braccio di ferro con l'Ucraina e con le forze della Nato è arrivato a un punto di svolta. La comunità internazionale ha reagito facendo scattare sanzioni contro la Russia. I principali bersagli sono i 351 membri della Duma che hanno votato a favore dell'indipendenza delle due autoproclamate repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, il ministro della Difesa russo Sergey Shoigu, i comandanti in capo dell'aeronautica militare e della flotta del Mar Nero, che si vedranno congelati i conti correnti e bloccati i passaporti. Ma le misure dovrebbero colpire anche soggetti attivi nelle attività di disinformazione, il commercio da e verso le repubbliche autoproclamate filorusse, alcune grandi banche russe, e serviranno anche a limitare la capacità dello Stato russo di collocare titoli di debito sui mercati dell'Ue. Poco prima dell'attacco della Russia abbiamo chiesto al generale Vincenzo Camporini, responsabile sicurezza e difesa di Azione, ex capo di Stato maggiore dell'Aeronautica militare e della Difesa, nonché ex presidente del Centro Alti Studi della Difesa ed ex vicepresidente dello IAI (Istituto Affari Internazionali, di cui ora è consigliere scientifico, se le sanzioni annunciate e formalmente adottate dal Consiglio Ue basteranno a fare pressioni e a impedire che Putin alzi ancora il tiro.

Generale, perché il riconoscimento delle repubbliche separatiste filorusse del Donbass è stato uno spartiacque?

Perché si tratta di un passo con cui viene formalmente violato il confine dell'Ucraina, e dopo questa svolta è difficile tornare indietro. Noi abbiamo l'esempio di quello che avvenne nel 2008 Georgia, che aveva un problema analogo a quello del Donbass con l'Ossezia meridionale: l'Ossezia del Sud insieme alla vicina Abcasia avevano richiesto l'indipendenza da Tbilisi, indipendenza che è stata riconosciuta da Mosca, e da allora la situazione si è congelata. E sembra che lo stesso si stia verificando oggi in Ucraina, i prodromi ci sono tutti: due regioni che sono ancora giuridicamente secondo il diritto internazionale parte dell'Ucraina, che hanno dichiarato unilateralmente l'indipendenza, e che sono state riconosciute dal governo russo. Il dado è stato tratto, perché Mosca non riconosce più la sovranità di Kiev in quell'area.

E questo ci dà anche un'indicazione su quali siano le mire di Putin?

È difficile da dire. Putin si accontenterà di quanto ha ottenuto fino ad ora? Dipende da lui, potrebbe anche volere qualcosa di più. Il presidente russo sapeva benissimo che le richieste formulate con la proposta di trattato che aveva avanzato nei confronti degli Stati Uniti e della Nato non potevano essere ottenute. Però è chiaro che per scongiurare un'adesione dell'Ucraina alla Nato dovrebbe puntare a un cambio di governo a Kiev, e non è escluso che sia uno dei suoi obiettivi: porre a capo dell'Ucraina un governo amico, formato da personalità filorusse, che non siano troppo invise all'elettorato ucraino. Ma è un'operazione che va fatta con grande intelligenza, perché un atto di forza di Putin creerebbe delle reazioni da parte della popolazione ucraina che non consentirebbero a un governo fantoccio di reggersi in piedi.

Secondo lei una de-escalation è ancora possibile in questo quadro?

Ormai come dicevo siamo arrivati a un punto di non ritorno. Putin non tornerà certo indietro sul riconoscimento di Donetsk e Lugansk. La de-escalation ci sarebbe semplicemente se si fermasse qui. Anche perché non dobbiamo dimenticare che l'Ucraina è uno degli elementi del problema strategico russo. L'idea di una fascia di sicurezza intorno ai propri confini è radicata nei secoli: non è cambiata ai tempi dello zar, non è cambiata nel periodo dell'Unione Sovietica e non sta cambiando adesso. Ci sono almeno altri tre confini della Russia con Paesi della Nato, un confine con l'Estonia, uno con la Lettonia, e non dobbiamo dimenticarci l'enclave di Kaliningrad, che si trova tra la Polonia e la Lituania. I confini della Russia con la Nato c'erano già nel 1949, perché nel Nord della Norvegia c'è una piccola fascia di terra, non irrilevante, di contatto tra i due territori. Quindi se l'intenzione della Russia è di eliminare tutte quelle zone di contatto immediato vuol dire che abbiamo un grosso problema, perché stiamo parlando di Paesi che sono membri dell'Alleanza Atlantica, che godono della protezione assicurata dall'articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico.

Quindi ciò che muove Putin è un disegno imperialista?

Sì, potrebbe essere un suo desiderio inconfessato, però le sue azioni dicono che non è così lontano dalla realtà

Il processo di approvazione del gasdotto Nord Stream 2 è stato sospeso dalla Germania. Questa è una mossa che indebolisce Putin?

Si sa, come avviene sempre le sanzioni indeboliscono chi le subisce ma hanno un prezzo anche per chi le attua. Bisogna vedere quale delle due parti è disposta a mollare pur di non pagare il prezzo. Il problema del gas russo in Europa è che oggi non esistono alternative credibili di lungo periodo. Si può tirare avanti per qualche settimana, qualche mese, ma del gas russo l'Europa ha bisogno. Quindi se la reazione russa fosse quella di una riduzione dei flussi in arrivo oppure fosse quella di applicare prezzi esorbitanti a quello che ci fornisce potremmo dover pagare un costo molto alto per le sanzioni. E bisogna vedere a questo punto se la capacità russa di sostenersi anche in un regime di sanzioni è abbastanza lunga. In altre parole: chi subisce le sanzioni deve avere riserve sufficienti per sopravvivere anche in questo regime. Se queste riserve sono sufficientemente elevate può aspettare che chi ha posto le sanzioni finisca le sue munizioni.

Quando Mosca dice che la risposta alle sanzioni occidentali sarà "forte e dolorosa" quindi cosa intende?

Putin ha il controllo su buona parte del flusso energetico che alimenta le vite, la quotidianità, le industrie dei Paesi europei, e quindi un suo drastico taglio provocherebbe l'immediata insufficienza delle sorgenti energetiche di cui disponiamo. Mosca da parte sua dovrebbe rinunciare agli introiti che arrivano grazie al pagamento di questo flusso di energia. Bisogna capire se il danno economico che la Russia subisce ha effetti altrettanto immediati. Ma dipende tutto dalla tempistica: bisogna capire insomma se Putin ha incamerato risorse bastevoli per poter fare a meno per sei mesi dei flussi finanziari che arrivano dalle forniture, e se si trova davanti qualcuno che non può permettersi di rimanere per lo stesso periodo di tempo senza il gas russo.

Cosa ne pensa delle sanzioni che sono state stabilite fino ad ora? Basteranno a riprendere i negoziati?

Fino ad ora le sanzioni annunciate mi sembrano di entità modesta. È chiaro che ci sono armi ben più pesanti. Quando si parla di escludere la Russia dal sistema di pagamenti internazionali, significa che verrebbero subito bloccate tutte le transazioni commerciali tra la Russia, l'Europa e gli Stati Uniti. Ma questo avrebbe dei costi anche per noi perché a questo punto chi esporta in Russia non potrebbe più farlo e ne avrebbe un danno economico che avrebbe delle ripercussioni sulle nostre politiche interne.

Ci sono leader, come Salvini, che sono contrari alla linea delle sanzioni, e dicono che dovrebbero essere l'ultima spiaggia. Che ne pensa?

Ci dica allora qual è secondo lui la penultima spiaggia. Non so proprio quali altri metodi di pressione possiamo mettere in campo. Questo Salvini non l'ha detto, se ha qualche idea la dica invece di criticare.

Lei ritiene adeguata la strategia comunicativa adottata fin qui da Biden e in generale dalle potenze occidentali, che hanno cercato di anticipare le mosse di Putin, divulgando le informazioni circa un attacco imminente da parte della Russia?

Diciamo che è stata una strategia che non ha facilitato le cose a Putin. Uno dei presupposti di un'offensiva militare è quello della sorpresa. Se riesco a eliminare il fattore sorpresa dall'arsenale del mio nemico certamente lo indebolisco e lo intralcio nell'esecuzione dei suoi piani.

Questa crisi secondo lei ci costringe ancora una volta a porci il tema dell'esercito comune europeo? 

Mi sono dedicato al problema delle forze armate europee fin dal 1999. Ci tengo molto, ma so benissimo che lo strumento militare è uno strumento della politica estera. Quindi uno strumento militare comune presuppone una politica estera comune. Ma io non riesco a vedere oggi in Europa neanche un accenno di politica estera comune: ogni Paese ha i suoi obiettivi e le sue priorità, che qualche volta convergono e qualche volta divergono. Avere uno strumento militare comune senza una solida politica estera comune è uno spreco di energie. Nel passato abbiamo già provato a fare delle cose insieme, per esempio con Eurofor, che abbiamo fatto con Francia, Portogallo e Spagna. Siamo stati costretti a scioglierlo perché la Spagna, a causa dei suoi problemi legati all'indipendentismo catalano, non l'ha voluto impiegare in Kosovo, perché quest'ultimo aveva dichiarato l'indipendenza unilateralmente. Quindi non essendoci una base comune lo strumento comune è rimasto tranquillo in caserma.

Un esercito comune europeo potrebbe servire a rafforzare il ruolo dell'Europa all'interno della Nato?

Io ho sempre visto l'esigenza imprescindibile di dare all'Europa la forma di un pilastro dell'Alleanza Atlantica e non di una serie di cespugli, come è oggi. Per fare questo occorre appunto che ci sia un'integrazione di alcuni Paesi europei – tutti sicuramente non è possibile – in modo da creare questo pilastro orientale dell'Alleanza Atlantica, che sostenga le politiche decise congiuntamente tra l'Europa e gli Stati Uniti. Ma gli Stati Uniti dal canto loro non hanno alcuna voglia di negoziare con gli europei, perché noi non siamo in grado di dare un contributo al riguardo. Se l'Ue fosse in grado di dare un contributo alla difesa comune analogo a quello che possono dare gli Usa allora sarebbe un dialogo tra pari, in cui ognuno potrebbe far valere le sue ragioni. Ma oggi il dialogo non è fra pari.

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