La nostra proposta sul nucleare

Un mix di fonti rinnovabili e nucleare è l’unica strada per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.

L’Italia si è impegnata, come tanti altri paesi, a raggiungere la neutralità climatica (c.d. “Net Zero”) entro il 2050: la CO2 immessa nell’atmosfera dovrà essere ridotta al minimo e il poco rimanente bilanciato da una quantità equivalente rimossa tramite sistemi di cattura e stoccaggio.

Per raggiungere questo obiettivo, tutti gli scenari proposti prevedono di:

  • Ridurre l’utilizzo di combustibili fossili ricorrendo il più possibile all’impiego di energia elettrica; per la strategia italiana di lungo termine, la quota di energia elettrica sul totale degli usi finali deve aumentare dall’attuale 21% (quota simile a quella di tutti i Paesi OCSE) al 55%.
  • Produrre tutta l’energia elettrica necessaria senza emissione di gas serra. In Italia si deve passare dai 95 TWh (miliardi di kWh) “senza emissioni di gas serra” prodotti nel 2021, di cui 50 idroelettrici e geotermici, dunque difficilmente aumentabili, a 650 TWh al 2050.

.Le strade per produrre energia elettrica senza emissioni di gas serra sono sostanzialmente tre e prevedono l’utilizzo di:

  • esclusivamente fonti rinnovabili (es: eolico, fotovoltaico, idroelettrico, geotermico, biomasse, ecc…) come dichiarano di voler fare nel lungo periodo Spagna, Germania, Belgio, Norvegia, Danimarca.
  • un mix di fonti rinnovabili e nucleare come hanno scelto il Regno Unito, la Francia, gli Stati Uniti, il Giappone, la Cina, la Polonia, la Finlandia, la Svizzera. Infatti, secondo l’IPCC, il panel ONU sui cambiamenti climatici, le emissioni di CO2 nel ciclo di vita per kWh generato dal nucleare sono simili a quelle dell’eolico ed inferiori a quelle del fotovoltaico
  • un mix di fonti rinnovabili e gas naturale utilizzato in impianti dotati di sistemi di cattura e stoccaggio della CO2 prodotta. La maggior parte dei paesi considerano questa alternativa come una strada secondaria e non come l’obiettivo principale.

Azione propone di modificare la strategia italiana, che al momento prevede il raggiungimento degli obiettivi di lungo termine utilizzando esclusivamente fonti rinnovabili, introducendo nel mix energetico anche una quota di energia nucleare.

1. Perché la strategia 100% rinnovabili non è la migliore per l’Italia

I Paesi che oggi dichiarano di voler rinunciare al nucleare nel lungo periodo ipotizzano che la domanda elettrica non cresca o cresca poco rispetto a quella attuale (in Italia -abbiamo visto- la previsione è che raddoppi), e che per oltre metà sia da fonte eolica, grazie all’elevato potenziale domestico di cui dispongono; inoltre considerano di importare dall’estero grandi quantità di biomassa e di idrogeno.

Le fonti rinnovabili come il fotovoltaico e l’eolico sono intermittenti: producono energia elettrica solo in alcuni momenti della giornata (il solare evidentemente mai dopo il tramonto e prima dell’alba), per un numero di ore all’anno che varia in UE da 900 a 1500 per il fotovoltaico e da 2000 a 5000 per i migliori siti eolici. Si intuisce perciò come disporre di siti con vento sostenuto e costante sia un vantaggio significativo, che tuttavia non ci appartiene, visto che gli stessi investitori italiani ipotizzano 3000 ore nei migliori siti off-shore. Il nostro potenziale eolico è perciò limitato e dovremmo puntare di più sul fotovoltaico. Il fotovoltaico risente, però, anche di una forte stagionalità: la generazione elettrica in primavera/estate è fino a tre volte maggiore che in autunno/inverno. Stagionalità che nel caso della fonte eolica è meno marcata con una prevalenza in autunno/inverno. Per questo motivo, per soddisfare in Italia con sole fonti rinnovabili la domanda oraria di energia elettrica, notte e giorno, estate e inverno, ogni giorno dell’anno, occorrerebbe installare una grande quantità di potenza in eccesso, inclusa una quota che entra in servizio quando mancano sole e vento (back-up) ed una grande capacità di sistemi di accumulo giornalieri e stagionali, con conseguenze dissipazione di una notevole quantità di energia elettrica prodotta. Questi problemi sono molto mitigati per i Paesi che dispongono di un elevato potenziale eolico, in quanto il vento, rispetto al sole, è meglio distribuito durante la giornata e nei vari mesi dell’anno e quindi, in combinazione con il fotovoltaico, riduce il fabbisogno di accumulo, soprattutto quello molto più costoso e complesso di tipo stagionale.. Per utilizzare l’eolico in modo massiccio, tuttavia, il paese non solo deve essere esposto a venti molto forti, ma deve anche disporre di ampi spazi disabitati (o poco abitati) nei quali installare gli impianti onshore e/o dovrebbe avere un affaccio su un oceano o su un mare molto ampio con vento sostenuto e costante e fondali non troppo profondi (meno di 40 metri) per gli impianti eolici off-shore. Purtroppo, non è il caso dell’Italia che sarebbe costretta ad utilizzare principalmente il fotovoltaico o impianti off-shore galleggianti, più costosi, per di più da realizzare in aree con molto meno vento che altrove in Europa.

Come dimostra qualunque simulazione basata sull’effettivo andamento orario della generazione e della domanda, per soddisfare in Italia consumi elettrici di 650 TWh con sole fonti rinnovabili, occorrerebbe installare circa 50 GW di eolico (che si considera essere sostanzialmente tutto il potenziale economicamente sfruttabile) e da 400 a 600 GW di fotovoltaico (400 se si ricorre all’accumulo stagionale così detto power to hydrogen, con la necessità di installare in aggiunta più di 100 GW di impianti di produzione idrogeno e 60 GW di pile a combustibile), oltre a circa 45 GW di generatori a bio-metano (che sfrutterebbero tutto il potenziale nazionale oggi stimato) ed oltre 1 TWh di batterie, aggiuntive agli impianti idroelettrici a pompaggio, per l’accumulo giornaliero. In aggiunta a tutto questo occorrerebbe aumentare di un fattore da 2 a 3 la portata di alcune linee di trasmissione in alta tensione, in particolare di quelle da SUD a NORD e delle rete di distribuzione in ogni regione d’Italia.

Le tecnologie attuali non consentono all’Italia di ridurre i problemi dell’intermittenza del fotovoltaico e quindi di raggiungere gli obiettivi del 2050 nei tempi stabiliti solamente con le fonti rinnovabili. I sistemi di accumulo elettrochimici, gli impianti di elettrolisi per la produzione di idrogeno su larga scala, le pile a combustibile per riconvertire l’idrogeno in energia elettrica, gli impianti eolici onshore ed offshore galleggiante, capaci di generare energia elettrica a costi competitivi con venti deboli, ecc. sono tutte tecnologie il cui sviluppo e maturazione e conseguente abbattimento dei costi (nella filiera power to hydrogen servirebbero riduzioni dei costi di un fattore 6!) sono indispensabili per la competitività economica di un mix 100% rinnovabile -anche a prescindere dall’impatto delle potenze sopra indicate su un territorio pregiato come quello italiano- e non è detto che saranno conseguiti in tempo (o conseguiti affatto). Analoga la situazione per le tecnologie di cattura e sequestro della CO2 che oggi non sono ancora competitive e per loro natura rivestono un ruolo transitorio data la limitata disponibilità di giacimenti per lo stoccaggio della CO2 catturata. I reattori nucleari di terza generazione evoluta sono già disponibili, e costruiti oggi in molte aree del mondo (54 in costruzione) a costi già competitivi, laddove siano attive ben rodate filiere industriali.

 2. I vantaggi di una strategia che include il nucleare

In un sistema elettrico senza emissioni di CO2 una quota nucleare riduce sensibilmente i problemi legati alla variabilità, stagionalità e intermittenza. Le centrali elettronucleari , nel ciclo di vita emettono la stessa quantità di CO2 per kWh generato dell’eolico e circa la metà del fotovoltaico, e possono lavorare in continuità per 8000 ore l’anno; il giusto mix di rinnovabili e nucleare, riduce il fabbisogno di potenza variabile (solare ed eolico) e di conseguenza la necessità di tutte le tecnologie ausiliarie (generatori di backup, sistemi di accumulo giornaliero e stagionale, reti).

L’impatto ambientale di un mix con nucleare è minore. L’aumento della portata delle linee di distribuzione e trasporto necessarie a supportare il mix energetico descritto sopra nel caso di uno scenario senza nucleare è ingentissimo; la digitalizzazione delle stesse non potrà ridurre in modo significativo questa necessità, ma solo migliorare la gestione e l’affidabilità. Da un punto di vista dell’impatto sul territorio, se si considerano impianti fotovoltaici con tracking, sarebbe necessario impegnare da 600 a 900 mila ettari solo per il fotovoltaico ed ulteriori circa 80 mila ettari per gli impianti eolici, tenendo conto della necessaria distanza tra gli aerogeneratori. Superfici molto ragguardevoli (per intenderci pari a circa il doppio del Molise) cui si dovrebbero aggiungere quelle destinate alle nuove reti di distribuzione e trasporto. In caso di utilizzo di una quota nucleare (tra 40 e 60 GW) la potenza di fotovoltaico da installare diminuirebbe in modo significativo (basterebbero da 75 a 200 GW, a seconda della potenza nucleare istallata a del ricorso o meno all’accumulo stagionale, che comunque richiederebbe meno della metà di impianti per la produzione di idrogeno) così come basterebbero sistemi di accumulo di capacità da 4 a 5 volte inferiore. Con conseguente molto consistente riduzione della superficie necessaria a installare impianti di generazione e reti di distribuzione e trasmissione di energia elettrica.

Le tempistiche per raggiungere il Net Zero si riducono. Ad oggi abbiamo installato poco più di 22 GW di fotovoltaico e 10,5 GW di eolico onshore, e l’incremento annuale complessivo è di circa 0,7-0,8 GW; per raggiungere l’obiettivo del 2050 senza nucleare risulterebbe necessario installare, di solo fotovoltaico, mediamente da 14 a 22 GW all’anno fino al 2050, cioè da 25 a 40 volte di più rispetto al ritmo attuale, mentre invece, via via che i così detti terreni marginali vengono utilizzati, sempre più difficile risulta reperire ulteriori ampie superfici, dell’ordine dei 30-40 mila ettari all’anno, e conseguire le relative autorizzazioni. Analoga, se non peggiore la situazione con riferimento agli impianti eolici che sarebbero necessari. Come detto, l’utilizzo di una quota di energia nucleare richiede di installare capacità rinnovabile molto inferiore e di conseguenza una disponibilità di superfici molto meno estese. In aggiunta occorre autorizzare pochi siti (orientativamente 8, come indicato nel punto 2) da circa 150-200 ettari ciascuno, nelle aree idonee del Paese, che ospitino ciascuno sino a 4 reattori di nuova generazione.

Il nucleare espone l’Italia a un minor rischio legato alla dipendenza delle materie prime. Da un lato, le riserve di uranio si trovano principalmente in paesi (es: Canada e Australia) con cui l’Italia ha rapporti migliori e più stabili rispetto ai paesi da cui importiamo il gas naturale (es: Russia, Algeria, Libia) o che “controllano” la produzione di materiali necessari per gli impianti di generazione elettrica rinnovabile, di idrogeno, di accumulo elettrochimico (es: Cina). In secondo luogo, l’incidenza del prezzo dell’uranio sul costo di un kWh elettronucleare è molto modesta, a differenza di quella del prezzo del gas; aumenti anche consistenti del prezzo dell’uranio avrebbero impatto modesto sul costo del kWh; inoltre la quantità di uranio necessaria per la produzione di energia elettrica di un anno intero consente di negoziare facilmente acquisti di lungo termine per il fabbisogno di uno o più anni. Infine la quantità di materiali, soprattutto metallici, necessari alla realizzazione dei reattori, se confrontata per unità di energia elettrica prodotta nella vita tecnica, è circa 2 ordini di grandezza (circa 100 volte) inferiore a quella per esempio di un impianto eolico istallato in Italia.

Un mix elettrico che include il nucleare è più economico in termini di costi complessivi di sistema. In quasi tutti gli studi accademici che tengono conto dei profili orari di generazione e di domanda elettrica, specialmente quando la fonte rinnovabile più disponibile è quella solare, con le già citate caratteristiche di stagionalità, un mix che includa una quota elettronucleare presenta costi complessivi (generazione, accumulo, backup) minori di un mix 100% rinnovabile. Un recente studio condotto dai ricercatori dell’Università di Padova mostra che, utilizzando per tutte le tecnologie in gioco i costi dello scenario NetZero dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, generare in Italia il fabbisogno elettrico di lungo termine (650 TWh) con sole fonti rinnovabili costerebbe sino al 50% in più di un mix con una quota di nucleare con capacità complessiva di 40 GW.

 3. Quante centrali nucleari sarebbero necessarie?

Secondo gli scenari più accreditati nel 2050 il carico di base elettrico sarà compreso tra 45 e 50 GW. Il nucleare si presta molto bene ad essere utilizzato a potenza poco variabile, preferibilmente costante: è perciò adatto a soddisfare (in tutto o i parte) tale carico di base, funzionando per oltre il 90% delle ore dell’anno alla potenza nominale della centrale. La nostra proposta è puntare ad installare entro il 2050 40 GW di centrali elettronucleari, con reattori a fissione di nuova generazione (dalla 3^ generazione evoluta in avanti).

Ipotizzando una potenza media di 5 GW per centrale (indicativamente con 3-4 reattori a centrale, a seconda della taglia unitaria), sarebbero necessarie 8 centrali (a titolo di esempio, in Francia sono oggi in esercizio 18 centrali per complessivi 56 reattori).

Per l’individuazione dei siti dove andranno installate tali centrali, saranno adottate le migliori procedure basate sugli standard dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica, sia per ciò che concerne i requisiti tecnici che le strategia di coinvolgimento delle popolazioni, considerando in primo luogo l’utilizzo dei siti che hanno già ospitato le centrali nucleari prima del referendum del 1987.

 4. I reattori nucleari che oggi si costruiscono nel mondo sono pericolosi?

In tema di sicurezza bisogna ricordare come l’unico incidente ad una centrale nucleare che abbia causato vittime per via della radioattività è stato quello di Chernobyl. Si trattava però di un reattore privo dei più comuni sistemi di sicurezza adottati già da decenni nei reattori occidentali: un incidente del genere non sarebbe mai potuto capitare in nessuna centrale del mondo al di fuori dell’Unione Sovietica. La prova di ciò è evidente analizzando l’incidente di Fukushima dove la centrale giapponese, più vecchia di vent’anni rispetto a quella di Chernobyl, ha resistito al quarto terremoto più forte mai registrato (magnitudo 9, trentamila volte più potente di quello dell’Aquila). Nonostante questo evento catastrofico abbia letteralmente distrutto la costa est del Giappone e portato alla morte di quasi ventimila persone tutte le centrali nucleari si sono spente automaticamente e in completa sicurezza nel giro di pochi di pochi secondi dalla prima scossa. La centrale di Fukushima, che nel 2011 aveva più di quarant’anni di vita ed era stata costruita con la tecnologia degli anni ’60 (era una centrale a metà tra la prima e la seconda generazione) non ha risentito del violentissimo terremoto. Il successivo incidente è stato causato dall’onda di tsunami che ha allagato il locale che ospitava i generatori diesel che, dopo il totale collasso della rete elettrica, si erano regolarmente avviati per alimentare le pompe di raffreddamento del nocciolo della centrale. In seguito all’incidente di Fukushima, stress test sono stati condotti su tutte le centrali europee e più stringenti prescrizioni sono state adottate per tener conto di possibili allagamenti in caso di eventi straordinari.

Il problema della sicurezza in Italia è estremamente ridotto se consideriamo che la tecnologia è enormemente migliorata negli ultimi sessant’anni, l’intensità dei terremoti nel nostro Paese è notevolmente inferiore a quella del Giappone e la normativa italiana ha un approccio molto prudenziale rispetto alla costruzione di centrali nucleari in aree sismiche (per esempio nella maggior parte delle aree considerate idonee in Giappone la normativa italiana non ne consentirebbe la costruzione).

5. Come verranno gestiti i rifiuti radioattivi?

Secondo la classificazione dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica, esistono sei diverse tipologie di rifiuti radioattivi, i norma raggruppate per semplicità in tre categorie: a basso livello di radioattività (LLW), a livello intermedio (ILW) e ad alto livello (HLW), a seconda dell’intensità e della durata nel tempo delle emissioni radioattive.

In Francia vengono prodotti circa 13,8 tonnellate di rifiuti all’anno pro capite (considerando anche tutte le attività industriali), di cui 100 kg sono rifiuti tossici e 2 kg sono rifiuti radioattivi. I rifiuti radioattivi ad alta attività ammontano a circa 5 grammi all’anno per abitante; di conseguenza, un cittadino francese produce nell’arco della sua vita un volume di rifiuti radioattivi ad alta attività inferiore a quello di una lattina di coca-cola, a fronte di una produzione nazionale di energia elettrica dal nucleare pari al 70% del totale (oltre 60 GW di potenza installata).

I rifiuti LLW e ILW sono di gran lunga quelli più abbondanti e vengono generati anche al di fuori dell’industria nucleare energetica: in Italia il 40% del volume dei rifiuti LLW è generato oggi dalla medicina nucleare. Questi rifiuti, in Italia, sono attualmente gestiti in numerosi depositi temporanei di superficie (edifici sorvegliati), con vita tecnica di circa 50 anni, quindi non idonei allo smaltimento di rifiuti radioattivi a vita più lunga. Quindi anche i rifiuti LLW e ILW, con l’eccezione di quelli a vita molto breve, dovranno essere smaltiti (cioè sistemati sino al definitivo decadimento sotto la soglia di rilevanza radiologica) in un deposito nazionale di superficie. I rifiuti HLW, prodotti durante l’esercizio delle nostre centrali nucleari dismesse e che verranno prodotti da quelle nuove, dovranno essere smaltiti in un deposito geologico.

Secondo la normativa UE, ogni Paese Membro è obbligato a gestire i propri rifiuti radioattivi sul territorio nazionale e quindi è urgente completare il processo di localizzazione ed avviare la costruzione del deposito nazionale di superficie, che può essere realizzato nell’arco di 4-5 anni, a condizione che vengano risolte subito le attuali criticità gestionali della Sogin, società di stato incaricata dell’opera.

Il deposito nazionale, dovrà ospitare solo temporaneamente i rifiuti HLW, che debbono rientrare dalla Francia e dal Regno Unito, dove il nostro combustibile irraggiato è stato spedito (l’ultimo carico nel 2015) per il ri-processamento. Per tutta la nostra passata stagione nucleare si tratta in tutto di 10 cask (robustissimi cilindri di acciaio e rame di circa 1,5 m di diametro e 4,5 m di altezza). Tuttavia il deposito di superficie non può essere quello definitivo per questo tipo di rifiuti, che dovranno essere invece smaltiti in un deposito di profondità (geologico), come quello quasi completato in Finlandia e la cui costruzione è stata avviata in Svezia. Che i cask rimangano 10 o aumentino sino a 100, con un nuovo programma nucleare, è necessario lavorare da subito ad una strategia che chiuda anche il ciclo di questa tipologia di rifiuti. Pertanto, nelle more del processo di localizzazione e costruzione del deposito unico nazionale, si propone di avviare la costruzione in uno dei siti Sogin di una struttura idonea (basta poco, perché i cask sono estremamente robusti, a prova d’urto, incendio, affondamento, ecc. tanto che per esempio negli USA sono custoditi sui piazzali) a ospitare i 4 cask attualmente “parcheggiati” nel Regno Unito dal 2019, per i quali stiamo già pagando un ticket di € 18 milioni/anno, che dal 2025, quando si aggiungeranno anche i 6 cask francesi, presumibilmente diverranno € 45 milioni/anno; mentre il costo della struttura necessaria ad ospitarli tutti e dieci, per tutto il tempo necessario, è stato stimato in meno di € 4 milioni. Sarebbe tutto denaro risparmiato sulle bollette elettriche degli Italiani. In parallelo si propone di intensificare le negoziazioni con altri Paesi UE per la realizzazione di un deposito geologico regionale comune, consentito dalla normativa UE.

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