Basta alla giustizia spettacolo

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08/09/2021

Costa: "Questa spettacolarizzazione della giustizia produce danni immensi a chi finisce nell'ingranaggio".

 

Un'epoca sta per finire. Quella delle inchieste penali con i nomi ad effetto. Basta spettacolarizzazione: la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha depositato qualche settimana fa in Parlamento un nuovo Regolamento, da oggi all'esame delle Camere, che vuole dettare regole più stringenti ai magistrati. È un qualcosa che l'Europa impone a tutti i Ventisette Paesi membri, di rafforzare in ogni aspetto la presunzione d’innocenza dei propri cittadini. Ma se nell'ordinamento italiano la presunzione di innocenza è ben presente, non può dirsi lo stesso per gli aspetti mediatici. E qui interviene il Regolamento. Con alcune nuove semplici regole: nelle conferenze stampa dei procuratori, da limitarsi ai casi di "particolare rilevanza pubblica dei fatti", il magistrato non dovrà mai presentare la figura di un indagato o arrestato come "colpevole", e anzi dovrà chiarire in che fase del procedimento ci si trova. Se si è soltanto alle prime battute, si dovrà spiegare chiaramente che una verità giudiziaria ancora non c'è e che si dovrà aspettare l'esito finale. Se poi un indagato o imputato si sentisse leso da qualche atto giudiziario (salvo gli atti del pubblico ministero)  che precede una sentenza, perché presentato come colpevole, potrà chiedere di modificarlo tramite il suo avvocato. Ma la rivoluzione culturale targata Cartabia viene all'articolo 3 del Regolamento: "È fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti dominazioni lesive della presunzione di innocenza". Fine di una moda che ha fatto la gioia dei titolisti di giornali.

Capostipite dei nomi ad effetto fu senza dubbio l’inchiesta "Pizza Connection", negli Anni Ottanta. Di là c'erano l'Fbi, il procuratore Luis Freeh e il procuratore federale Rudolph Giuliani. Di qua, il drappello della polizia giudiziaria di Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Assieme, i quattro magistrati smantellarono buona parte della mafia dell'epoca. E furono gli americani a inventarsi quel titolo così evocativo. Per Falcone e Borsellino, invece, era ancora il fascicolo "Abbate Giovanni +706". Al massimo, i giornalisti lo chiamavano "Maxi-processo".

La lezione americana però piacque molto e negli anni seguenti, sempre più spesso si diede un marchio ai procedimenti. In genere sono le forze di polizia che trovano il titolo, partendo da un dettaglio o un'intercettazione. E c'è da dire che chi ha inventato alcuni di questi nomignoli è un genio del marketing. L'esempio più celebre è forse "Mafia Capitale", sintesi folgorante tra il basso e l'alto, tra la peggiore forma di criminalità e la più illustre delle istituzioni. Ma onore al merito per chi inventò il titolo "Aemilia" sull'infiltrazione della 'ndrangheta calabrese in Emilia-Romagna, reminiscenze di cultura classica sulla colonizzazione romana in val padana. Oppure per chi ha battezzato "Geena" un'indagine sulla mafia in Valle d'Aosta, dimostrando una profonda cultura biblica per associare una valle maledetta vicino Gerusalemme con la Valle incontaminata degli stambecchi.

"Questa spettacolarizzazione della giustizia – dice il deputato Enrico Costa, Azione, relatore alla Camera – produce danni immensi a chi finisce nell'ingranaggio. Quando infatti a un'inchiesta viene dato un titolo accattivante, e spesso la conferenza stampa è accompagnata da spezzoni di video con pedinamenti e intercettazioni che sembrano un trailer perfetto, la pubblicità è garantita. I media e i social moltiplicheranno quel titolo e quel trailer all'infinito. Come il lancio di un film. Tutto è ben studiato. Pare che da qualche parte ci sia perfino un ufficio che esamina la proposta di marchio e verifica che non ci siano sovrapposizione con altre inchieste precedenti. Peccato però che di questo film si diano solo titoli di testa, e mai quelli di coda che arriveranno con le sentenze. E intanto, se si finisce indagati, associati a un marchio di tale successo, anche se poi uno è assolto, il danno è irrimediabile".

L'intervista di Enrico Costa a La Stampa