Professoressa Fattorini, Papa Francesco ha reiterato la sua volontà di recarsi a Kiev. Come leggere questa determinazione?

Se il Papa andrà a Kiev, Zelensky annovererà questo gesto come il suo successo più prezioso. Tanto più dopo l'orrore di Bucha, che rappresenta uno spartiacque non solo da un punto di vista umanitario e dei crimini di guerra ma una provocazione che è difficile non interpretare come una voluta escalation. La strada della diplomazia vaticana si fa sempre più difficile e complicata. Deve evitare di essere ostaggio di una parte o di un'altra. Le "strumentalizzazioni", subite fino a qui da Bergoglio ricordano quelle rivolte a Benedetto XV durante la prima guerra mondiale dagli stessi cattolici delle opposte nazionalità che, per la prima volta, rompendo il tradizionale universalismo, si trovarono l'un contro gli altri armati. I cattolici francesi, non dico massoni miscredenti, denigravano il papa come "papa bosche", cioè crucco, un'accusa rintuzzata dai cattolici tedeschi i quali rievocavano il Gott mit uns, naturalmente riferendosi solo a loro. Il Papa è stato travolto, come tutto e tutti, dal risorgere della dinamica amico-nemico: il redde rationem di una generazione, la nostra, che si sfida tra interventisti, neutralisti e pacifisti, come era successo per la generazione di inizio Novecento. È stato detto giustamente che l'aggressione all'Ucraina non è solo una guerra di confini e di territori, di risorse e di gas. È una guerra di emozioni e di nostalgie. Come la prima guerra mondiale, anche questa riveste una funzione catartica e salvifica: per i conservatori è il ritorno all'impero, alla religione e all'autorità, nel rimpianto – con Novalis della Cristianità o Europa – di un mondo che si sta perdendo (il comunismo rimpianto o mai elaborato degli ex); mentre per i democratici è il rafforzamento dei diritti, della democrazia e della libertà ('valori' ancorché acciaccati, e impugnati spavaldamente dai neofiti liberal-democratici, della stessa generazione, sempre di ex). Come se le grandi illusioni delle ideologie novecentesche non avessero retto l'elaborazione della disillusione per approdare ad una cinica delusione che ora produce aggressività e rancore. È vero dunque che Putin teme il contagio della democrazia. E va combattuto senza distinguo.

 

Il Papa è stato strumentalizzato da più parti…

Mi hanno colpito sia il silenzio imbarazzato della stampa e sia il rumore opportunista della politica sulle posizioni di Bergoglio. Dopo l'invito del Papa a pregare per la pace le chiese erano gremite, e in un giorno feriale, nel silenzio di tutta la stampa che non ha riportato neppure la notizia. Così è stato imbarazzante vedere il maldestro e patetico affrettarsi di esponenti politici ad occupare lo "spazio pacifista" con il parassitismo proprio del nostro populismo di sinistra, in nome del Papa. Oppure: il Papa parla contro l'aumento del Pil per le spese militari e si apre una polemica penosa tra accuse di essere o guerrafondai o cripto- putiani, come è capitato all'ottimo direttore dell'Avvenire, Marco Tarquinio. Giornale di raro equilibrio che discute di una difesa comune europea, rafforzata e mirata. E che ha fatto suo l'appello delle donne di Se non ora quando-Libere, per riservare una quota degli investimenti bellici ad un servizio di difesa civile europeo obbligatorio per ragazze e ragazzi. "Che si fondi non sul popolo (di maschi) in armi ma su cittadini e cittadine che provano a civilizzare la grande politica non ancorandola alla guerra …"Utopie? Ingenuità? Non credo.

 

Quali posizioni sono in gioco nella cattolicità? In che senso si può considerare questa una guerra giusta ?

Stefano Ceccanti, molto opportunamente ha ripubblicato, con una bella prefazione, un importante classico di Emmanuel Mounier, I cristiani e la pace (Castelvecchi editore) che, alle soglie della seconda guerra mondiale, spronava i cristiani alla responsabilità per la resistenza contro il nazismo, sostanziando le ragioni della guerra giusta. Un "realismo cristiano" che fu anche di Jacques Maritain, impastato di inquietudine, speranza e pazienza. Principi che ispirarono Paolo VI nella sua "politica internazionale ecumenica" e nel sostegno all'Ostpolitik della Santa Sede. Dopo la bomba atomica, nel corso di tutto Novecento, si stempera però il concetto di guerra "solo difensiva": la proporzionalità si appanna via via di fronte al possibile allargamento globale del pericolo atomico sempre più incontrollabile in un mondo multipolare dove è difficile se non impossibile gestire la deterrenza. Le aspirazioni neo-imperiali costituiscono un pericolo superiore che non durante la guerra fredda. E, allora dobbiamo chiederci se l'appello di Bergoglio ad accelerare la tregua nasca non "solo" da un'urgenza spirituale – d'ufficio: "perché fa il suo mestiere" - ma abbia anche, un contenuto "politico-strategico". Per un "contenimento" della "terza guerra mondiale a pezzi", appunto. Che aiuti a costruire nuove e più audaci categorie e strategie diplomatiche anche da parte della Santa Sede. Per farsi, come fu nella migliore cultura politica del cattolicesimo novecentesco, attiva sostenitrice di istituti sovra e internazionali.

 

C'è stato un ritardo di comprensione di ciò che stava maturando sul fronte russo-ucraino? Lo chiedo alla storica ma anche alla ex senatrice Pd e dirigente di primo piano di Azione.

Nessuno aveva capito fino a che punto stavano le cose. Nella scorsa legislatura chi da parlamentare faceva parte della delegazione dell'Osce ricorda come nelle ripetute visite a Mosca e a Kiev e in tutte le repubbliche ex sovietiche il tema fosse sempre e solo quello: le pretese russe sull'Ucraina. In quella specie di piccolo parlamentino mondiale, una sorta di Onu in sedicesima, americani e russi si accapigliavano, fino alla rissa mentre noi europei ci dividevamo rispettivamente tra democratici e populisti (sia di destra e sia di sinistra) . C'era anche il delegato della Santa Sede. Eravamo a Kiev quando uccisero il nostro reporter Andrea Rocchelli nel Donbass, il 24 maggio del 2014 andammo ad accogliere la sua famiglia affranta e dignitosa. Secondo la ricostruzione dei giudici italiani risulterà ucciso da un colpo di mortaio sparato dall'esercito ucraino che combatteva contro i russi. Era il 2014 e non capivamo quei paesi. Siamo stati più che miopi, inebriati dalla "fine degli imperi" e dall'illusione di una conquista definitiva della democrazia. Non avevamo capito la gravità dell'occupazione della Crimea. Sì perché nella sottovalutazione della Crimea c'era ancora l'idea che quell'espansione territoriale in fondo, in fondo e in qualche modo legittima, si sarebbe arrestata. Invece già lì si annidava la paura del contagio della democrazia.

 

Come rendere più efficace la diplomazia vaticana e il suo rapporto con le chiese ortodosse?

Quante volte mi chiedevo, nelle missioni Osce, perché non fossimo in grado di pensare ad una nuova, grande, seconda Helsinki, dopo quella del 1977, voluta dai sovietici per riconfermare i confini usciti dalla seconda guerra mondiale e sanciti "solo" a Yalta e mai con un trattato vero e proprio. Ebbene a Helsinki i sovietici, quasi senza rendersene conto e grazie dalla Santa Sede firmarono l'autodeterminazione delle nazioni, la pace e la garanzia dei diritti umani che cominciarono ad erodere dall'interno i regimi comunisti. È a quel livello che avremmo dovuto incalzare e sanzionare la Russia non per allontanarla ma, nella prospettiva di Giovanni Paolo II per farne il polmone orientale dell'Europa. un'Europa vitale solo se avesse respirato con tutti i due i polmoni, quello occidentale e quello orientale. E quell'incontro tra ovest ed est sarebbe dovuto essere agevolato dall'incontro tra le chiese ortodosse e quella di Roma. E ora questo è uno degli ostacoli sul cammino del difficilissimo intervento vaticano: l'impossibilità a percorrere la via ecumenica. Certo per le posizioni (sacrileghe) del Patriarca di Mosca prono a Putin, ma anche per le divisioni delle stesse chiese ortodosse ucraine. E, sostanzialmente, per l'intreccio perverso e irresistibile tra religione e nazione in quelle terre, intreccio vissuto da Wojtyla nella sua stessa persona quanto però poco ponderato nella strategia ecumenica verso gli ortodossi da lui maldestramente gestita. Forse la poca incidenza della diplomazia vaticana nasce non tanto dalle divisioni interne e dalle oggettive complessità, ma dalla difficoltà più profonda a trovare categorie nuove, uno spazio forte, alleanze consolidate, insomma una rinnovata autorevolezza della diplomazia vaticana all'altezza delle sfide che, anche per la Chiesa, sono assai superiori anche a quelle che incontrò nella guerra fredda, quando la gloriosa strategia dell'Ostpolitik riuscì ad erodere dall'interno il grande nemico rappresentato dal comunismo. E che contribuì non poco a farlo crollare, senza capire però, che da quel momento sarebbe cominciata una sfida ancora più difficile. Per tutti.